Buongiorno,

questa è La Lettera, il magazine che creiamo per te da Casa Fools, guardando il mondo attraverso gli occhi dell’arte.

Ti scriviamo dalla scrivania sotto la finestra. Attorno a noi c’è un brulichio incredibile: a Casa, infatti, c’è il Torino Fringe Festival, mentre continuano instancabili le prove dei FoolsLab, i nostri laboratori artistici.

Sono già andati in scena gli spettacoli finali dei Lab Original. Quaranta persone hanno calcato le scene, per molti la prima volta nella vita.

È stata un’esperienza molto forte, per loro e per noi.


Ogni anno, quando si avvicina la data dello spettacolo, qualche partecipante si scoraggia, vede la propria parte imperfetta, la scena involvere mentre le altre sembrano veleggiare senza problemi verso gli applausi.
Succede ogni anno, ed è assolutamente normale.
Tutti vorremmo andare in scena in maniera perfetta, o quantomeno eccellente, un desiderio sacrosanto.

Ma c’è una cosa che abbiamo imparato in questi vent’anni di teatro:
FATTO è meglio che PERFETTO.

Parliamone un attimo.


Oggi ti parliamo di lui, Alberto Giacometti, qui fotografato dal grande Robert Doisneau.

Qualche giorno fa ci siamo imbattuti in un’intervista del 1963 ad Alberto Giacometti. Eccola qua.

Alberto Giacometti è l’artista che ti presentiamo oggi, famoso per le sue figure allungate, quei corpi esili e filiformi che sembrano consumati dal tempo e dalla fatica. Non sono solo sculture, ma vere e proprie meditazioni sulla condizione umana.

Nelle didascalie potrai trovare qualche dettaglio in più su di lui e la sua arte. Ora ti basti sapere che nel 2015 “Pointing Man”, una sua opera, ha battuto il record di valutazione per una scultura venduta all’asta, con oltre 141 milioni di dollari pagati. Il record precedente? Dello stesso Giacometti: “Walking Man”, battuto nel 2010 per 104,4 milioni di dollari.

Cosa dice lo svizzero Alberto in questa intervista?
Giacometti sta modellando una scultura, in giacca, sigaretta tra le dita e capelli arruffati, plasma tra le chiacchiere la testa di una piccola scultura, e dice:

Giacometti: L’unica cosa che ho voglia di fare è una testa così (tonda). Ma è difficile, non ci riesco…

Intervistatore: Ricerca una testa o la testa?

Giac: Una testa qualunque…

Interv: Questi corpi così allungati sono ispirati forse ai suoi…

Giac: No, è involontario! Non voglio farli allungati. Diventano allungati malgrado me stesso. Dal 1935 in poi non ho mai fatto una cosa come volevo, è sempre uscita un’altra cosa rispetto a quello che volevo. Io vorrei fare teste normali, di figure normali…non ci riesco…

Interv: Ma lei come giudica, in generale, le sue opere?

Giac: Male. Beh…sono tutte scadenti.

Interv: Ma questa è la forza dell’artista, no? La continua ricerca…

Giac: Sono delle ricerche mancate. Vorrei riuscire a fare una volta una testa come vedo, come non sono mai riuscito. Bisogna avere una bella dose di imbecillità per continuare. Vedendo che non so fare niente dovrei smettere, con un po’ più di intelligenza smetterei. In realtà sono uno scultore mancato…


Partiamo proprio dall’ossessione di Giacometti per la testa umana. Le sue teste scolpite e dipinte sono tentativi infiniti di catturare l’essenza del soggetto, come se stesse cercando di afferrare l’anima con le dita.

Uno scultore mancato, dice. Sarà stato davvero quello che pensava o era una strategia comunicativa? A te la scelta.

Quel che ci ha colpito è la sua frustrazione: prova ma non ci riesce. Nonostante ciò, ogni giorno continua a modellare. Cerca di plasmare secondo i suoi desideri, senza riuscirci. Cerca, fallisce, ci riprova, fallisce, ci riprova, e intanto il suo tratto distintivo diventa sempre più marcato, nonostante se stesso e la sua volontà.

Fare è capire.
Se avesse concluso solo le opere che riteneva all’altezza delle sue aspettative, all’asta non ci sarebbe arrivato nulla e oggi non avremmo nessuna sua scultura probabilmente.

Perché perfetto non è fatto. E fatto, per sua natura, non è perfetto.


Le sue opere sono l’incarnazione della fragilità e della resistenza umana. Sembrano costantemente in bilico tra la presenza e l’assenza, catturando quell’angoscia esistenziale che Sartre descrive così bene.

Facciamo un esempio ancora più clamoroso.

Quando a Michelangelo fu assegnata la decorazione della Cappella Sistina, il buon Michi si avvilì. La volta enorme, la posizione impossibile, le aspettative altissime. Se avesse cominciato solo quando si fosse sentito all’altezza del compito, con un progetto perfetto, il materiale perfetto, i collaboratori perfetti, la paga perfetta, il clima, i colori, la luce… addio capolavoro!

Sai com’è andata?
La Cappella è stata la sua opera più tormentata. Non era mai soddisfatto, non lo pagavano, non c’era materiale, non c’era tempo, non c’erano le condizioni perfette, e Michelangelo tutto riteneva fuorché di star facendo un lavoro al limite della perfezione.

Fu il suo secondo più grande rimpianto artistico; il primo fu la Pietà Rondanini, che addirittura prese a martellate per distruggerla.

Eccola qua:

In teatro questo principio diventa imprescindibile: uno spettacolo non potrà mai mirare alla perfezione. Mai, non è contemplabile, ogni cosa umana è imperfetta.
Ora dovremmo cominciare una dissertazione su:
cosa si intende per perfezione?
Ma lasciamo perdere, diciamo solo che la perfezione è un insieme di norme che ci siamo dati nel tempo e che mutano adattandosi ai gusti della società.
Come può il teatro, che è una cosa viva, cristallizzarsi nella perfezione? Come può un attore, un autore iniziare a creare, modellare la vita se ha come punto di arrivo la perfezione?
Eppure è sempre a quello che si tende.

Un insegnante dell’Accademia ci diceva:
Punta in alto e la freccia forse arriverà a metà del bersaglio.


Giacometti ha una capacità unica di trasformare il vuoto in materia. Non è tanto la figura in sé a essere centrale, quanto lo spazio che la circonda. È stato non solo un artista, ma un filosofo visivo, un vero poeta della forma.

Se si dovesse aspettare di avere l’idea perfetta, gli interpreti perfetti, il testo perfetto, non si farebbe più nulla.

Saremmo tutti paralizzati dall’angoscia, assisteremmo a prove infinite alla ricerca del risultato perfetto, che comunque non può essere garantito tutte le sere. Perché in scena ci sono esseri umani, che parlano con altri esseri umani, di fronte a molti esseri umani.
Un’arte che si esprime nella completa variabilità.

Per questo è normale sentirsi sconfortati, soprattutto verso la fine del lavoro, quando ci si aspetta da sé e dall’opera un risultato al limite della perfezione.

Ciò non vuol dire che allora vale tutto!

Ma sì, facciamo le cose a caso, tanto basta fare! Quelli che studiano per una vita senza fare mai non hanno capito nulla! Ho la passione, basta quella!…

La vedi la pericolosa strada che porta al ridicolo?

Come fare?
Ci vuole un amico. Qualcuno che ti protegga dal ridicolo, che ti dica le cose come stanno, che con amore ti mostri la distanza tra desiderio e affermazione:

Sono felice che tu dipinga, ma forse non è il caso di volerci guadagnare dai…

Oh, hai scritto un’altra poesia? Che bella, molto personale, ecco, conservala nel tuo cuore…

No, amico, fare foto a caso col cellulare non fa di te un fotografo…

Poi si è liberi di fare tutto comunque, ma almeno coscienti.


Alcune fasi del processo che hanno fatto nascere: L’uomo che cammina.Puoi vederla ingrandita qui.

Tra noi tre c’è un patto: nessuna pietà, ci diciamo sempre le cose come stanno. E questo vale per la produzione artistica come per le scelte personali.

E quindi?
Fatto non è perfetto, ma fare non significa riuscire.
Prova, tenta, informati, studia: fai!

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio diceva quel buontempone di Samuel Beckett.

C’è qualcosa che aspetti di fare da una vita, senza mai cominciare? Sistemare lo sgabuzzino, scrivere un racconto, fare quel viaggio…

Scrivici, saremo felicissimi di leggerti e spronarti…se serve!
Se sei in zona, passa a salutarci a Casa.

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